I miei acquirenti mi portarono a casa e mi chiusero in un ripostiglio oscuro. Abituato alla luce del finestrone del negozio mi ci volle un po' per rifarmi gli occhi. Ma non dovetti resistere molto: ce ne andammo solo 4 giorni dopo. La meta del viaggio doveva essere molto vicina alla mia terra d'origine, perché la parola "Cina" ricorreva spesso quando se ne parlava. Lo chiamavano Vietnam, e sentii dire che era una lunga striscia di terra bagnata dal mar della Cina, che si allargava nella parte più a nord e in quella più a sud, e che un tempo si era chiamato Indocina.
Dal mio nuovo ripostiglio riuscivo a sentire quello che i miei proprietari si dicevano. Erano preoccupati, sempre ed irrimediabilmente indecisi, non sapevano se avevano fatto il passo più lungo della gamba decidendo di andarsene così lontano. A me sembravano paranoici: persino uno zaino come me sa che c'è meno rischio ad andare in giro per il Sud-Est Asiatico che in qualsiasi periferia di una grande città occidentale.
Arrivò dunque la vigilia della partenza. Tra un "ce la faremo?!!" e l'altro mi riempirono di vestiti, necessaires per la toletta e anche una borsa di pelle piena di medicine antidiarrea, antizanzare e una macchinetta elettrica per tagliarsi barba e capelli. Il giorno dopo ce ne saremmo andati all'alba, ma dal ripostiglio potevo sentire i miei due padroni discutere in camera dei pericoli e delle trappole che si sarebbero trovati davanti. Alla fine si addormentarono giusto un'oretta prima che suonasse la sveglia.
All'alba, dopo avermi allungato, accorciato, riallungato, stirato e pressato per circa mezz'ora, finalmente trovarono quella che a loro sembrava la misura giusta per caricarmi in spalla. Allora mi resi conto che con noi veniva un altro mio simile, un po' più piccolo di me ma molto più sgargiante: era verde pisello. Arrivammo all'aeroporto e fui protagonista del primo check-in della mia vita. Avevo sentito parlare di quella fastidiosa operazione quando ero ancora nel magazzino della fabbrica dove ero stato prodotto. Alcuni operai dicevano che tutte quelle corde e gancetti che pendono da noi zaini erano facilmente soggetti ad impigliarsi in qualche gancio dopo il check-in, durante il percorso sul nastro trasportatore diretto al rimorchio che poi ci avrebbe portati all'aereo.
Quando l'impiegata finalmente mi applicò l'etichetta adesiva con la sigla dell'aeroporto di destinazione facendola passare attorno al mio manico superiore, non mi sentivo più tanto tranquillo e il mio umore era sempre più simile a quello dei miei paranoici proprietari.
Tutto invece andò bene. Superai senza agganciarmi da nessuna parte i 300 metri di nastro trasportatore, caddi da circa 3 metri in una grande stanza senza finestre, un paio di personaggi con un giubbotto giallo fosforescente si avvicinarono, mi presero, contrallarono cosa c'era scritto sulla mia etichetta (MPX) e mi misero su un grosso rimorchio tirato da un furgoncino. Arrivai senza ostacoli all'aereo della compagnia Vueling diretto a Milano Malpensa. Noi bagagli siamo una categoria piuttosto bistrattata: ci tirarono senza tanti complimenti nella stiva dell'aereo e ci ammassano tutti uno sopra l'altro in pochi minuti.
A Milano ci gettarono su un altro carro, ci portarono nella zona arrivi dell'aeroporto e ci misero su un nuovo nastro, pronti per ricongiungerci di nuovo coi nostri padroni. Cominciai a girare, e vedevo gli sguardi attenti dei passeggeri che ci aspettavano pronti ad afferrarci. Due mani mi presero improvvisamente e mi caricarono su spalle che... Non mi sembrarono per nulla quelle dell'essere bicefalo. Non era l'essere bicefalo! Ne fui assolutamente sicuro quando lo sentii parlare.
FINE SECONDA PARTE
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